Probabilmente, dopo il 25 luglio del 1978, quando una donna priva delle tube di Falloppio partorì Louise Brown, la prima bambina nata “in provetta”, la maggior parte della gente, inclusi i medici, avevano pensato ad una stravaganza scientifica frutto del lavoro di un visionario, destinata sicuramente a fare scalpore per un po’ di tempo, ma troppo complicata per risolvere il problema di milioni di persone che avevano difficoltà a mettere al mondo un bambino. La tecnica veniva considerata, infatti, troppo complessa, di difficile riproducibilità, costosa e niente affatto priva di rischi per chi vi avrebbe fatto ricorso.
Ed invece, la fecondazione assistita, termine che preferisco a quello troppo roboante e teologico di procreazione assistita, da allora ha fatto passi da gigante, tanto che, nel mondo occidentale, circa il 3 % dei bambini viene oggi concepito in laboratorio.
Tuttavia, la fecondazione assistita ha suscitato molte polemiche e conflitti, non solo ai suoi esordi, ma anche ai tempi attuali che coincidono con le storiche sentenze della Corte Costituzionale sulla rimozione di una serie di divieti imposti dalla legge 40/2004.
Famoso il primo articolo dell’Avvenire, pubblicato, subito dopo la nascita della piccola Louise Brown, dal Monsignor Tettamanzi che sottolineava la separazione tra l’esercizio della sessualità e l’inizio della vita ed il secondo, in cui indicava “Grossi e loschi affari dietro la nascita in provetta”.
Gli articoli di quasi tutti i giornali dell’epoca parlavano di “natura violata” tranne uno scritto del biologo Adriano Buzzati Traverso sul Corriere della Sera, che fu, infatti, attaccato e sepolto dalle critiche. Neppure i giornali considerati riformisti, tra cui l’Unità, alzarono un solo dito per difenderlo.
Tutti erano contrari a quell’esperimento sull’uomo – così veniva descritta la FIVET e perfino i vincitori di premi Nobel come James Watson e Max Perutz usarono la loro autorità scientifica (anche se in altri settori) per bollare la fecondazione extracorporea come qualcosa che avrebbe generato bambini malformati.
Ed, invece, i fatti li hanno smentiti e la storia ci testimonia che grazie a quella geniale intuizione del biologo genetista inglese Robert Edwards – divenuto poi Premio Nobel per la Medicina nel 2010 – e del suo collega ginecologo Patrick Steptoe (deceduto nel 1988) oggi sono nati nel mondo oltre sei milioni di bambini con la fecondazione in vitro, rendendo felici altrettanti milioni di coppie. I numeri sono davvero alti, se si pensa che nella sola Europa vengono effettuati, oggi, oltre mezzo milione di cicli, negli USA circa 150.000 e nel mondo intero un milione e mezzo, con la nascita annuale di oltre 350.000 bambini.
Sicuramente in quarant’anni sono stati compiuti enormi progressi, basti pensare che la prima bambina nacque da un singolo ovocita ottenuto con un ciclo ovulatorio spontaneo che generò un singolo embrione poi trasferito in utero allo stadio di otto cellule.
Oggi la medicina dispone di una vasta gamma di farmaci che servono per produrre più ovociti e per eliminare le interferenze endocrine endogene, cioè quelle prodotte dagli organismi delle donne sottoposte a stimolazione ovarica e che porterebbero inevitabilmente ad una ovulazione spontanea, e, quindi alla perdita di tutte le uova. Ci sono altri farmaci, inoltre, che aumentano i tassi d’impianto dell’embrione, preparando al meglio la mucosa uterina o endometrio all’annidamento dell’uovo fecondato.
Inizialmente i successi della fecondazione in vitro non andavano al di là del 6% e poi salirono al 10% quando la scuola australiana retta da Alan Trounson e Carl Wood pubblicò i primi lavori sull’impiego del clomifene citrato e gonadotropine con il trasferimento di 2 o 3 embrioni per volta.
Ma cosa s’intende per riproduzione assistita o per fecondazione artificiale?
Probabilmente la prima cosa a cui si fa riferimento è quella di un ago che penetra la membrana di un ovocita per fecondarlo, una delle immagini più usate dai documentari televisivi e dai media in generale per descrivere questo processo. In realtà, questa procedura denominata ICSI (intracytoplasmic sperm injection) rappresenta solo uno dei metodi usati nella PMA per fecondare una cellula uovo; molte altre volte si procede con una tecnica più semplice – ma sempre extra-corporea – in cui i gameti maschili e quello femminile vengono semplicemente collocati insieme in un apposito pozzetto affinché uno spermatozoo penetri nella cellula uovo, fecondandola. In questo caso si parla di FIV o IVF (in-vitro fertilization), cui fa seguito l’embryo transfer, da cui l’acronimo FIVET.
Col termine di riproduzione assistita s’intende l’insieme delle tecniche – sia intracorporee che extracorporee – che possono essere impiegate per ottenere un concepimento.
Inizialmente, verso la fine del ‘700, le procedure consistevano nell’iniettare sperma nella vagina o nell’utero ed erano finalizzate a risolvere il fattore maschile, nei casi in cui non era possibile effettuare il coito o quando il numero degli spermatozoi era considerato insufficiente. La prima pubblicazione scientifica a parlarne risale al 1803, ad opera del francese Thoure.
Le inseminazioni vennero subito etichettate dalla Chiesa come innaturali, poiché separavano il concepimento dall’atto sessuale ed arrivarono le prime scomuniche, che costrinsero gli addetti ai lavori alla clandestinità. La prima “eterogamica” e non “eterologa”, termine infelice poiché scientificamente questo termine dovrebbe fare riferimento all’incontro di gameti di specie diverse (e non appartenenti a terzi esterni, nell’ambito della stessa specie) avvenne in un paese apparentemente più libero da condizionamenti morali, gli Stati Uniti, alla fine dell’800.
I primi risultati ottenuti in campo umano dopo congelamento del seme con l’azoto liquido avvennero nel 1964 e ciò consentì l’istituzione di numerose banche biologiche cui potevano attingere uomini azoospermici ai fini procreativi. I vantaggi delle banche erano molteplici, come quello di consentire ad un individuo affetto da tumore, di poter mettere da parte qualche campione di seme prima di iniziare una chemio o una radioterapia che lo avrebbe reso sterile; oppure quella di evitare la trasmissione genetica di malattie ereditarie o di garantire alle coppie campioni di seme non infetto. Basti pensare che negli ammalati di AIDS c’è una finestra di sieronegatività di alcuni mesi prima di poter effettuare la diagnosi di laboratorio, per cui solo dopo una crio-conservazione dello sperma di sei mesi, e quando gli esami sierologici del donatore sono nuovamente negativi, è possibile garantire la sicurezza del campione – da un punto di vista infettivo – non solo per la ricevente, ma anche per il concepito.
Dagli anni ’70 furono messe a punto varie tecniche per la terapia della sterilità femminile ed oggi, sempre più spesso, le donne, più emancipate rispetto a ieri, preferiscono completare i loro studi e trovare una certa stabilità economica prima di pensare ad un figlio. E poiché dopo i trent’anni l’organismo femminile diventa ogni giorno meno fecondo, subendo una brusca caduta dopo i 38, ecco l’ausilio della ovodonazione, l’extrema ratio, possibile in Italia dopo la storica sentenza della Consulta n.162/2014.
Secondo gli ultimi dati del Registro Nazionale di PMA istituito nel 2005 presso l’Istituto Superiore di Sanità con decreto del Ministro della Salute, in attuazione a quanto previsto dall’art.11 Comma 1 della Legge 40/2004, considerando tutte le tecniche – omologa ed eterologa, sia di primo livello (inseminazione), che di secondo e terzo livello (fecondazione in vitro), dal 2014 al 2015 sono aumentate le coppie trattate (da 70.826 a 74.292, pari a + 4.9 %), i cicli effettuati (da 90.957 a 95.110, pari a + 4.6 %) e i bambini nati vivi (da12.720 a 12.836, pari a + 0.9 %), pari al 2,6% dei nati nel 2015 (erano il 2,5% nel 2014).
Sono diminuite, invece, le coppie (da 45.985 a 45.689), i cicli iniziati (da 55705 a 55.329) e i nati (da 8848 a 7695) da tecniche di II e III livello omologhe a fresco, cioè la procedura più utilizzata dalle coppie.
Si conferma la tendenza secondo cui il maggior numero dei trattamenti di fecondazione assistita viene effettuato nei centri pubblici e privati convenzionati, pur essendo questi centri in numero inferiore ai centri privati.
I Centri privati sono infatti il doppio, numericamente, di quelli pubblici, ma vi si effettuano meno cicli di trattamento. In particolare, il 31,1% dei centri è
pubblico e vi si effettua il 38,6% dei cicli; il 6,6% è privato convenzionato e vi si effettua il 24,8% dei cicli; il 62,3% è privato e vi si effettua il 36,6% dei cicli. In totale il 63,4% dei cicli di
trattamenti si effettua all’interno del SSN (in centri pubblici + privati convenzionati).
Per quello quanto riguarda le percentuali di successo in Italia, secondo il Registro Nazionale PMA, esse risultano sostanzialmente stazionarie nel corso dell’ultimo decennio, attestandosi nel 2015 ad un valore del 10,5% per le inseminazioni semplici e al 18,2% per le tecniche a fresco di II e III livello (FIVET – ICSI).
Oggi, fanno ricorso alla fecondazione assistita:
- coppie sterili o infertili;
- coppie fertili portatrici di malattie genetiche (PGD);
- donne e uomini prima di terapie antitumorali (chemio-radio-terapia);
- donne che intendono preservare la loro fertilità (age-banking o social freezing);
- coppie che necessitano della donazione di gameti (esaurimento della riserva ovarica, menopausa precoce, azoospermia).
Per quanto concerne l’eventuale rischio malformativo legato alle tecniche di fecondazione extracorporea, i dati disponibili in letteratura sono discordanti. Alcuni AA riportano per l’ICSI un incremento basso, statisticamente non significativo del rischio presente in un concepimento naturale che è intorno al 6% su un campione di 20 milioni di bambini (0,83% di malformazioni maggiori evidenti alla nascita; 1,26% evidenziate dopo i primi accertamenti negli ospedali; 4,5% scoperte tardivamente dai pediatri. W.P. Kennedy).
Sicuramente, per indurre una crescita follicolare multipla, sono necessarie alte concentrazioni di ormoni ipofisari; è inevitabile che i gameti vengano sottoposti in laboratorio a manipolazioni di vario genere; è possibile che per la microiniezione della cellula uovo venga impiegato uno spermatozoo imperfetto che da sé non sarebbe stato in grado di fecondare; ed è possibile, infine, che i molteplici terreni di coltura impiegati per nutrire i gameti e gli embrioni nell’incubatore, possano determinare delle alterazioni nel prodotto del concepimento. Tuttavia, si tratta solo di ipotesi, e tale ragionamento andrebbe suffragato da valide prove scientifiche.
Secondo molti epidemiologi, non è possibile dare una risposta attendibile al quesito se la PMA, o alcune tecniche di PMA, possano aumentare la percentuale dei neonati imperfetti, poiché sarebbe necessario un vasto studio sperimentale che metta a confronto coppie sterili con coppie fertili, i farmaci impiegati per la terapia, gli stili di vita personali con maggior riguardo al consumo di alcool e tabacco e perfino il periodo dell’anno in cui è avvenuto il trattamento, visto che in alcune stagioni vengono impiegati in agricoltura maggiori quantità di pesticidi. Un insieme di variabili, insomma, che a detta di molti statistici renderebbe incerta e poco esauriente qualsiasi risposta. Inoltre, come ben noto, l’età media materna è più elevata nelle donne che si sottopongono a fecondazione assistita (36.6 anni in Italia) rispetto alla popolazione generale ed è possibile che la sterilità sia collegata a fattori genetici che potrebbero essere corresponsabili di alcune malformazioni del concepito.
Su un punto c’è identità di vedute e riguarda la crio-conservazione degli embrioni: analizzando la percentuale di malconformazioni nei bambini nati da ciclo fresco o dopo scongelamento embrionale, non vi sono differenze statisticamente significative tra i due gruppi.
La Legge 40/2004 e quel che ne rimane dopo le sentenze della Corte Costituzionale
Come noto la legge 40/2004 prevedeva una serie di norme e principi che imponevano, tra le altre: la tutela dei diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito; il trasferimento in utero di tutti gli embrioni prodotti nel numero massimo di tre (in pratica, inseminazione di tre ovociti); i divieti della fecondazione eterologa, della crio-conservazione e della sperimentazione sugli embrioni umani; il divieto, di fatto, della diagnosi pre-impiantatoria.
È evidente che alcune proibizioni previste stridevano con altri principi vigenti nel nostro ordinamento, come quello di eseguire la ricerca sugli embrioni (perfino quelli con anomalie cromosomiche) che confligge con quanto sancito dalla Carta all’art.9, che promuove la ricerca scientifica e perfino con lo stesso comma 2 dell’art. 13 che, comunque, prevede un filone di ricerca con finalità diagnostiche e terapeutiche.
È anche evidente che il discutibile “diritto del concepito” (art.1 L.40/2004) confligga con un’altra legge dello Stato, la 194/78.
Con la prima storica sentenza dell’1 aprile 2009, la n.151/2009 la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del comma 2 dell’art.14 limitatamente alle parole “ad unico e contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre” e del terzo comma dello stesso articolo in cui non prevede che il trasferimento embrionale, che deve effettuarsi non appena possibile, debba essere effettuato senza pregiudizio per la salute della donna. La sentenza, perciò, pone al centro dell’attenzione la salute della donna, riequilibrando un irrazionale sbilanciamento degli interessi in gioco ed eliminando l’irragionevolezza di un trattamento identico per tutte, senza considerare il fattore età. Nelle motivazioni, la Corte riconosce al medico ciò che la legge 40 gli negava, e cioè “la possibilità di una valutazione, sulla base delle più aggiornate e accreditate conoscenze tecnico-scientifiche, del singolo caso proposto al trattamento, con conseguente individuazione, di volta in volta, del limite numerico di embrioni da impiantare, ritenuto idoneo ad assicurare un serio tentativo di procreazione assistita, riducendo al minimo ipotizzabile il rischio per la salute della donna e del feto”. Al comma 2 dell’art. 14 viene perciò riconosciuta una violazione degli articoli 3 e 32 della Costituzione.
Come conseguenza della rimozione del numero massimo di ovociti da inseminare, disposto dalla sentenza n.151/2009, v’è la deroga al principio generale di divieto di crio-conservazione embrionale previsto dal comma 1 dell’art. 14 della legge 40. La crio-conservazione, si renderebbe infatti necessaria in tutti quei casi in cui il trasferimento nel grembo materno della totalità degli embrioni prodotti potrebbe pregiudicare lo stato di salute della donna.
All’inizio del 2014 con due ordinanze di remissione del Tribunale di Roma ed una di quello di Milano, sono state sollevate le questioni di legittimità sull’accesso alle tecniche di PMA alle coppie portatrici di malattie genetiche per contrasto con gli art, 2,3,32 e 117 co. 1 Cost., in riferimento agli articoli 8 e 14 CEDU.
Il 5 giugno 2015, con la sentenza n.96/2015 la Consulta ha dichiarato l’illegittimità degli art.1 e 2, e 4, comma 1 della legge 40, consentendo l’accesso alla PMA alle coppie fertili portatrici di malattie geneticamente trasmissibili, rispondenti ai criteri di gravità che consentono l’accesso all’aborto terapeutico.
Già in precedenza, con la sentenza n.162/2014 la Corte costituzionale aveva sancito l’illegittimità del divieto di fecondazione eterologa in quanto realizzava una condizione di diverso trattamento tra le coppie affette da sterilità od infertilità. Tale disuguaglianza di trattamento, in fatti, ha costretto per anni migliaia di coppie italiane a recarsi all’estero per realizzare il proprio sogno di genitorialità.
Il 21 ottobre 2015, con sentenza 229/2015 nell’ambito del giudizio in via incidentale sollevato dal Tribunale di Napoli, la Consulta ha sancito l’illegittimità costituzionale dell’art.13, commi 3 lettera b) e 4 della legge 40 nella parte in cui vieta la selezione degli embrioni a scopo eugenetico, anche nei casi in cui questa sia finalizzata ad evitare l’impianto di embrioni affetti da malattie genetiche.
Infine, nell’aprile del 2016 la Consulta ha bocciato, dichiarandolo inammissibile (sent. 84/2016) il ricorso di una coppia rivoltasi al Tribunale di Firenze, che desiderava donare i propri embrioni alla ricerca, motivando che la decisione non spettava alla Corte, ma al Legislatore.
Nonostante le modifiche apportato al testo originale, attraverso l’intervento demolitorio della Corte costituzionale, restano aperte una serie di questioni, come l’attuale impossibilità di donare gli embrioni soprannumerari alla ricerca, il destino incerto degli embrioni soprannumerari stessi, che fine faranno quelli in stato d’abbandono, dove andranno a finire nel caso di chiusura di un Centro, chi pagherà i costi della crio-conservazione a tempo indefinito, come regolamentare, infine, la crio-conservazione e la diagnosi genetica pre-impianto (PGD), due metodiche di fatto reintrodotte dalle succitate sentenze. In tale ambito, c’è da fotografare una peculiarità squisitamente italiana e cioè che la PGD avvenga attualmente solo nei centri privati e che di essa non si fa cenno né nell’annuale relazione del Ministro al Parlamento, né nelle tabelle del Registro Nazionale PMA. Eppure, il comma 5 dell’art. 14 della legge 40/2004 prevede che la coppia, su sua richiesta, può informarsi “sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire nell’utero”.
Come risolvere, tutte le questioni rimaste appese? Sarebbe auspicabile un maggior dialogo tra il Legislatore e le società scientifiche che in Italia si limitano a partecipare alle audizioni. È compito delle società scientifiche, in Italia troppo numerose e disgregate, porre questioni al Legislatore, ed è compito del legislatore dare una risposta chiara e indifferibile.